Fabrizio Sbrana racconta la sua mostra.

Mostra fotografica "+2°- Accelerazione pericolosa"

Pubblicato il 10 febbraio 2022

La mostra fotografica "+2° - Accelerazione pericolosa", racconta in più di 30 scatti di Fabrizio Sbrana, i suoi viaggi realizzati inotrno al mondo in 40 anni di carriera.

Ecco un estratto dell'introduzione alla mostra.

"È inequivocabile che l’attività umana stia causando a una velocità sempre più preoccupante importanti cambiamenti nel clima. Sappiamo che l’aumento della temperatura di 2°C rispetto agli albori del periodo industriale produrrebbe effetti devastanti sulla Terra, sugli oceani, sull’atmosfera, sulla criosfera e investirebbe la vita e la sorte dei diversi ecosistemi. Ma forse l’uso del condizionale è ormai inopportuno.

Queste fotografie, come le esperienze della vita che si mescolano di continuo, sono il frutto di molti viaggi. Non sono “nate” come un reportage sull’emergenza climatica, fanno parte di diversi reportages realizzati nel corso di molti anni. Sono sempre stato spinto dalla curiosità verso il mondo e un viaggio dopo l’altro ho orientato il mio obiettivo per raccontare le facce di molte medaglie: ambienti, culture, tradizioni, spiritualità, ritmi di vita straordinariamente affascinanti, ma anche povertà, miseria, difficoltà, abbandono, assenza di qualsiasi mezzo di sopravvivenza. Mi tuffo nelle contraddizioni, non mi piace indossare i paraòcchi.

Queste fotografie mostrano l’urlo della Terra. Ho cercato di entrare dentro le sue ferite, giocando tra luci e ombre, tra chiari e scuri. A volte persino le croste che si formano su queste spaccature, dopo essersi accartocciate, si sgretolano non sopportando il calore e aprendo una bocca ansimante desiderosa di ossigeno.

In alcune aree la Terra sembra un corpo guasto, in sofferenza. Ne ho visto le profonde ferite un po’ ovunque, soprattutto nelle miniere a cielo aperto del Pantanal, nella Copperbelt della Zambia, nella foresta Amazzonica.

Ricordo un indios, era il 1991, mi trovavo a visitare il Parque Nacional do Jaù, in Brasile, mi disse: «Qui stanno chiudendo le scuole, il governo non manda più i maestri, noi ci dobbiamo spostare sempre più verso la città, sempre più verso Manaus. Se lasciamo la foresta, arrivano altri fazenderos e la foresta muore». Sono rimasto qualche giorno e spostandomi in barca tra piccoli villaggi lungo il Solimoes e il Rio Negro ho potuto toccare con mano lo scempio nel cuore della foresta pluviale più grande del mondo: giganteschi alberi abbattuti. Al loro posto, prima dell’arrivo delle ruspe, mozziconi di tronchi erano diventati il trampolino per i salti dei bambini. Se non operano le possenti seghe, c’è sempre il fuoco che può fare il resto: si chiama tecnica dello “slash and burn”, taglia e brucia. Serve terra per agricoltori e allevatori, serve terra per le miniere. È business, il resto non conta.

Nel deserto settentrionale della regione dancala, in Etiopia, ho patito un caldo torrido, infernale; la terra è arida e le condizioni di vita sono proibitive. Eppure in quella landa coperta di ciottoli bruni, i bambini portavano “al pascolo” le capre. Mentre li fotografo penso a come possa essere possibile adattarsi, mi sento in mezzo al nulla. Al ritorno al villaggio le capre guadagnano il sostentamento arrampicandosi sulle capanne per cibarsi delle frasche della copertura.

Sono di fronte a un lago salino, lo Chott El Jerid, nel sud della Tunisia, un’area iper arida, lontana dal mare, caratterizzata da scarsissime precipitazioni e venti secchi. È difficile tenere aperti gli occhi. La crosta di sale scricchiola sotto i miei piedi. Ricordo le riprese di Star Wars, qualche chilometro più avanti c’è ancora il set montato, divenuto una mèta per i fan. Sono andato anch’io, per curiosità. Ciò che tuttavia mi ha maggiormente incuriosito è il fatto che lo Chott è un ambiente sottoposto a grandi cambiamenti. È per questo che il lago è stato oggetto di uno studio che inizialmente mi era sembrato alquanto improbabile e cioè sulla possibile analogia tra i suoi depositi di cloruro e quelli presenti su Marte. Lo Chott è sempre più caldo, sempre meno lago.

Più in là, ma si parla di migliaia di chilometri, un uomo arranca alla ricerca di acqua dentro il greto di un fiume, antilopi, cammelli, montoni vinti dalla sete si fermano, si accasciano sulle rive di laghi trasformati in deserti di sale e diventano mummie, la loro pelle si cristallizza come i cristalli di ghiaccio che vanno alla deriva nei mari del nord. Il calore brucia la pelle, quasi impedisce agli occhi di restare aperti, brucia la vita che si attarda più del dovuto e chi non ha ancora sviluppato un adattamento ad hoc ne subisce l’inevitabile conseguenza.

Scheletri di alberi sono un monito per l’uomo. Sono gli scheletri di acacie nella Dead Vlei, in Namibia. La vista dall’aereo è emozionante, un fiume che non sfocia in mare ma termina la sua corsa nel deserto del Kalahari: sto sorvolando su un piccolo aereo che ho noleggiato, il delta dell’Okawango, sito dell’Unesco, lo hotspot più ricco di biodiversità al mondo, la più grande zona umida di acqua dolce. L’emozione è al massimo. Ma quando torno con i piedi sulla terra e comincio una conversazione con gli abitanti di quest’area avverto una grande preoccupazione: il delta sta subendo gli effetti del cambiamento climatico, la maggiore evaporazione che avviene durante il lungo tragitto dall’Angola al Botswana sta riducendo la quantità di acqua che raggiunge il delta. Non è difficile valutare l’impatto sulla biodiversità.

L’acqua, l’indisponibilità dell’acqua, la sua ricerca quotidiana è stato un altro tormento nei miei viaggi: dall’Africa all’India donne e bambini devono provvedere alla sua ricerca, al suo rifornimento. Li vedo in fila attorno ai pozzi che qualche progetto di cooperazione ha scavato, oppure dentro greti di fiumi mentre con scarsi mezzi scavano buche, oppure nei “pozzi cantanti” dei Borana, nel sud dell’Etiopia profondi anche oltre 30 metri: è una “catena umana” di uomini e donne impegnata a portare in superficie l’acqua indispensabile alla vita.

E poi l’Islanda, i ghiacciai di cui si percepisce lo scioglimento, laghi al posto di calotte e molti altri racconti.

Mi chiedo spesso quale futuro si riservi l’Uomo. Mi chiedo spesso cosa la Terra riservi all’Uomo. E se davvero l’Uomo non scegliesse di andare in controtendenza rispetto a +2°C? Cosa accadrà tra 30/50 anni ai diversi ecosistemi? Cosa accadrà se le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera continueranno ad aumentare al ritmo odierno?

 

È un’Accelerazione pericolosa".

 

Fabrizio Sbrana ha lavorato come fotoreporter freelance nell’ultimo ventennio del Novecento collaborando con diverse riviste del settore turistico («Qui Touring», «Geos», «Tuttoturismo», «AFRO» e altre) per poi dedicarsi ad altri progetti fotografici. Dal 1994 è iscritto all'Ordine Nazionale dei Giornalisti Italiani. Ha collaborato con ONG e con il Ministero degli Esteri documentando progetti di cooperazione in Etiopia, Ghana, Tunisia e Cuba, occupandosi principalmente dei diritti dei bambini e delle donne. Ha presentato i suoi reportages in molte mostre fotografiche realizzando installazioni all’aperto. Tra le sue pubblicazioni si citano: India. Sacralità del Quotidiano, Care Montagne, La Fortezza di Verrucole in Garfagnana, Fabbriche di Careggine.Storia di Genti in terra di Lucchesia.


 

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La gallery fotografica

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